Amianto : Sentenze

Esposizione all’amianto, riconosciuto danno terminale ma non danno parentale

La vicenda riguarda la responsabilità del Ministero della Difesa e del datore di lavoro per l’omessa prevenzione dell’esposizione all’amianto, che ha portato al decesso della vittima per mesotelioma. La Corte d’Appello di Lecce ha riconosciuto un risarcimento iure hereditatis per il danno terminale subito dal lavoratore esposto all’amianto, rigettando però la richiesta dei familiari per il danno parentale iure proprio. La Cassazione conferma la sentenza d’appello, ribadendo la corretta valutazione del nesso causale e l’inammissibilità del danno parentale in assenza dei presupposti.

L’esposizione all’amianto, la malattia e il decesso

La Corte d’appello di Lecce condanna in solido il datore di lavoro e il Ministero della Difesa a pagare, a titolo di danno non patrimoniale terminale iure hereditatis, l’importo di 185.918,00 oltre accessori. Ha dichiarato inoltre inammissibile la domanda di risarcimento danni iure proprio formulata dagli appellanti a titolo di danno parentale.

Secondo la Corte d’appello, la responsabilità del Ministero della Difesa sussiste ai sensi dell’articolo 2051 c.c., poiché la patologia contratta dal lavoratore – che ne ha causato successivamente il decesso – è risultata riconducibile all’esposizione all’amianto. Tale esposizione è avvenuta durante l’esecuzione di attività oggetto di appalto, in ambienti contaminati costituiti da navi, ponti di volo e dall’intera area dell’arsenale, tutti beni di proprietà del Ministero.

Quest’ultimo per andare esente della responsabilità ex art. 2051 c.c., avrebbe dovuto dimostrare di aver scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di aver esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull’attività dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno potesse ritenersi causato da una condotta dell’appaltatore non prevedibile e/o evitabile quindi in sostanza riconducibile all’ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del terzo.

Oltre a ciò la documentazione allegata dal Ministero evidenziava la piena consapevolezza da parte della Marina militare del rischio per la salute costituita dall’attività di coibentazione e rimozione dell’amianto oggetto di appalto.

CTU: il mesotelioma cagionato dall’esposizione all’amianto

ICTU medico-legale ha confermato che il decesso della vittima per mesotelioma maligno era stato cagionato dall’esposizione all’amianto.

Per quanto concerne la liquidazione del danno, i Giudici di appello hanno il danno biologico secondo le indicazioni tabellari fornite dal CTU osservando che “la particolarità del caso in esame – come ben evidenziato il CTU nella risposta ai quesiti formulati dalla Corte, che, erroneamente, includevano anche quello relativo al danno biologico per invalidità permanente che nella specie non è ipotizzabile stante l’exitus del lavoratore – è che alla malattia contratta è sopraggiunta la morte”.

I Giudici di appello, in sostanza, hanno seguito il consolidato orientamento secondo cui sopraggiunta la morte, il danno biologico doveva essere correttamente liquidato secondo il criterio della invalidità temporanea sub specie di danno terminale – da trasmettere agli eredi – nelle varie componenti di danno biologico e di danno morale (o catastrofale), considerata la durata della grave malattia dalla data della diagnosi fino al decesso. Per i 2 anni e 309 giorni di sofferenza, intercorsi tra la diagnosi della malattia ed il decesso, i giudici hanno liquidato l’importo pari a 185.918,00 secondo il criterio unitario ed i valori a scalare propri della tabella di Milano sul danno terminale.

L’intervento della Cassazione

Secondo la società datrice di lavoro della vittima la Corte di appello avrebbe errato nel non adeguatamente valutare il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro intercorso con il lavoratore in relazione alla patologia contratta ed alla luce delle considerazioni cliniche esposte dal CTU nell’elaborato peritale.

Quanto censurato è infondato. La Corte di appello ha innanzitutto valutato il reale atteggiarsi del rapporto di lavoro della vittima tanto che sul punto ha rinnovato l’esame dei testimoni per verificare in quale ambiente e con quali modalità egli avesse in concreto lavorato. Quindi non ha omesso di valutare alcun fatto decisivo, né ha contraddetto le tesi e le conclusioni sostenute dalla CTU, ma le ha valutate integrandole logicamente alla luce della istruttoria testimoniale espletata e della corretta applicazione delle norme giuridiche

La Corte ha infatti affermato, sulla scorta delle rinnovate prove testimoniali, che vi fu una esposizione all’amianto- non solo nel periodo di lavoro precedentemente svolto alle dipendenze di una cooperativa, ma anche nel periodo di lavoro successivo svolto presso il datore coinvolto nel giudizio in parola. Posto che anche questa impresa effettuava lavori di decoibentazione dei rivestimenti di amianto dalle navi senza osservare le prescrizioni di legge, mentre il lavoratore era adibito a lavori di pulizia (pulizia di sentine, cassa olio e casse acqua) a bordo nave; per cui egli rimaneva esposto all’azione nociva delle fibre pericolose sprigionatesi nello stesso ambiente.

La esposizione al fattore nocivo e pericoloso (primo elemento del nesso di causa) è dimostrato secondo la Corte dallo svolgimento del rapporto dal 1998 al 2006 in queste condizioni (mentre dal 2006 al 2010 la vittima è stato posta in cassa integrazione).

Le prove testimoniali

Si ritiene, pertanto, che legittimamente la Corte, dovendo “sciogliere il dubbio” sul punto ha chiesto chiarimenti ai testimoni, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva delimitato la esposizione solo al primo periodo di lavoro svolto alle dipendenze della Cooperativa.

Ciò ha condotto a ritenere che l’esposizione a rischio, che il Consulente ha riferito essersi consumata solo nel primo periodo, doveva dirsi avvenuta anche nel secondo periodo di lavoro svolto alle dipendenze della datrice convenuta sul presupposto di fatto accertato che il lavoro effettuato dalla vittima non era diverso nel primo e nel secondo periodo.

Per completezza si aggiunge che il CTU ha evidentemente formulato una diagnosi di derivazione causale in termini generali, riferendola all’esposizione complessiva subita dal lavoratore, senza distinguere tra il primo ed il secondo periodo di occupazione. Inoltre la (importante) complessa questione relativa a quale tra le esposizioni subite dal lavoratore sia stata effettivamente influente sullo sviluppo del tumore non è invece affrontata nei motivi di ricorso.

La sentenza di appello risulta quindi del tutto conforme al diritto e si sottrae alle infondate censure sollevate.

Avv. Emanuela Foligno