Amianto: Sentenze

Capraia, muore vittima dell’amianto in una centrale Enel: l’ente condannato a risarcire la famiglia con 180 mila euro

L’uomo per anni era stato un motorista presso la centrale elettrica di Capraia Isola, poi aveva contratto un tumore

Nel 2020 scopre di avere un mesotelioma pleurico ma è anche cardiopatico e nonostante le terapia oncologiche, dopo soli 12 mesi muore. Ora i familiari saranno risarciti dall’Enel. L’uomo per anni era stato un motorista presso la centrale elettrica di Capraia Isola, e subito dopo aver scoperto la malattia aveva richiesto all’Inail di essere inserito nelle liste dei lavoratori che hanno contratto un tumore sul luogo di lavoro per via della presenza di amianto.

L’ente gli riconosce lo status e lui avvia una causa di risarcimento danni al suo ex datore di lavoro, l’Enel, ma dopo le prime udienze sopraffatto dal male muore. Sua moglie e i suoi 4 figli riassumono la causa al Tribunale di Livorno che al termine del processo di primo grado riconosce il risarcimento perché l’Enel non avrebbe “protetto” i suoi dipendenti.

Non è la prima causa, infatti, che vede coinvolta la centrale elettrica di Capraia Isola. Nei giorni scorsi però la corte d’Appello di Firenze ha aumentato il totale del risarcimento che ammonta a circa 180 mila euro. Per i giudici di secondo grado «da sempre il lavoratore ha diritto ad essere protetto dalle polveri dell’ambiente di lavoro, a maggior ragione da quelle delle quali il datore conosceva, o doveva conoscere, esistenza e nocività», come nel caso di polveri e fibre di amianto. 

L’Inail quando l’uomo era ancora in vita, gli aveva già riconosciuto un indennizzo e la rendita prevista in questi casi di malattie professionali, ora i familiari avranno anche il risarcimento che finora non era arrivato perché l’Enel aveva impugnato la sentenza di primo grado. L’Enel, come molte altre aziende del settore, ha utilizzato l’amianto per le sue proprietà di resistenza al fuoco e al calore. Tuttavia, l’uso dell’amianto è stato progressivamente abbandonato proprio a causa dei gravi rischi per la salute legati all’inalazione delle fibre e delle polveri. 

L’operaio livornese aveva lavorato a contatto con l’amianto dal 1967 al 1969 e dal 1981 al 2003 prima di andare in pensione per poi ammalarsi e morire in meno di un anno. Per i giudici fiorentini l’amianto respirato a Capraia è la concausa, insieme alle sue patologie cardiache, del suo decesso. Queste le conclusioni processuali dopo testimonianze e perizie. I legali dei familiari dell’ex operaio dell’Enel avevano chiesto oltre 1 milione di euro di risarcimento.

«Asbestosi nota dal 1943»: risarcimento ai familiari del lavoratore vittima di amianto

Dal 1961 al 1996 un acquaiolo aveva riparato condotte idriche anche con tubi di eternit. Per la Corte d’Appello solo dal 91/92 il rischio amianto era fatto notorio

L’asbestosi è stata inserita tra le malattie mortali già dal 1943, il giudice non può dunque negare il risarcimento per la morte del lavoratore affermando una scarsa consapevolezza dei rischi da parte del datore di lavoro. La Cassazione accoglie così il ricorso della moglie e dei tre figli di un “acquaiolo”, che aveva lavorato per 35 anni, dal 1961 al 1996, con tubi di eternit, esposto alle fibre cancerogene dell’amianto senza protezioni. Nel 2012 è morto di carcinoma polmonare, dopo una diagnosi di asbestosi al 10%, poi all’85% e infine al 100%.

L’Inail, come il Ctu, avevano riconosciuto la natura professionale della malattia. Conclusioni avallate dal giudice del lavoro che aveva condannato il Consorzio di bonifica per il quale lavorava l’operaio a risarcire i familiari con circa 900mila euro.

Un verdetto completamente ribaltato in appello. La Corte territoriale, infatti, aveva escluso il diritto al risarcimento pur avendo accertato, in base alla perizia, «che il lavoratore era stato posto con elevata frequenza a contatto con serbatoi e tubazioni realizzati in cemento amianto su cui eseguiva interventi di manutenzione e riparazione; che non risultavano adottate adeguate misure di prevenzione nell’ambito della sorveglianza sanitaria del lavoratore medesimo». Neppure era servito il riconoscimento da parte dell’Inail dell’asbestosi – degenerata nel tempo in carcinoma con metastasi – come malattia di origine professionale.

Per i giudici di seconda istanza un ricorso proposto dagli eredi dopo oltre 20 anni dalla fine del rapporto di lavoro, rendeva difficile al datore provare il rispetto degli obblighi di prevenzione e sicurezza. A giocare contro il sì al risarcimento c’era, ancora una volta, il tempo: il lavoro era iniziato nel 1961 e si era concluso nel 1996. Non si potevano, dunque, applicare in via retroattiva la normativa di difesa dall’amianto entrata in vigore con i Dlgs 626/94, 81/2008, e 106/2009. Nè poteva essere valorizzata la precedente disciplina del Dpr 303/1956 che si riferiva solo alle polveri in generale. Secondo la Corte di appello, solo a partire dagli anni 1991/92 si poteva considerare un fatto notorio la correlazione causale fra l’esposizione a fibre d’amianto e il carcinoma polmonare.

Per finire il Ctu aveva basato le sue conclusioni sull’origine professionale delle patologie, riconosciute anche dall’Inail, senza individuare i parametri quantitativi dell’esposizione, «indispensabili al fine di valutare la dose cumulativa di fibre d’amianto espressa come fibre anno per centimetro cubico d’aria». Quindi l’accertamento non era attendibile. La Suprema corte prende, però, nettamente le distanze dalle tesi della Corte d’Appello, alla quale rinvia perchè riveda un giudizio, a tratti addirittura contrario alla legge.

Rischi noti all’epoca dei fatti

La decisione non è in linea con l’ordinamento innanzitutto nel negare un obbligo del datore di lavoro di rispettare la normativa sulle polveri (Dpr 303/56) e anche quella sulle fibre di amianto (Dlgs. n. 277/1991), pur essendo il rapporto di lavoro cessato nel 1996. Sbaglia ancora la Corte di merito, quando addossa ai familiari l’obbligo di dimostrare gli inadempimenti del Consorzio e quando sostiene che nel giudizio di responsabilità civile sia necessario accertare e dimostrare la presenza di una determinata esposizione quantitativa e qualitativa alle fibre di amianto. Non è comprensibile neppure il non aver tenuto conto del nesso causale tra la neoplasia e l’attività di lavoro, già accertato dall’Inail, ampiamente e logicamente riconosciuto dal Ctu sulla base di una serie di elementi – clinici, logici, di fatto, temporali, compreso un prelievo autoptico. Non una prova assoluta dunque, non necessaria, ma una «alta probabilità logica» del collegamento esposizione-malattia.

La Cassazione è costretta a ricordare che il lavoratore aveva contratto proprio l’asbestosi col 100% di invalidità, una malattia professionale tabellata che deriva dalla forte esposizione all’amianto e “sentinella” in quanto spia di una esposizione qualitativamente e quantitativamente molto sostenuta. Una patologia mortale, inserita nell’elenco delle malattie professionali tipizzate fin dal 1943.