Archivi categoria: Sentenze

Amianto: nuovi limiti per mc

Esposizione dei lavoratori all’amianto: ok al decreto che abbassa limite da 100mila a 2mila fibre per mc

Via libera preliminare del Consiglio dei Ministri al D.Lgs. di recepimento della direttiva UE 2023/2668

Rafforzare in modo significativo la protezione dei lavoratori esposti all’amianto. È questo l’obiettivo del decreto legislativo di attuazione della direttiva (UE) 2023/2668 (che modifica la direttiva 2009/148/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi all’esposizione all’amianto), approvato in esame preliminare dal Consiglio dei Ministri nella riunione di mercoledì 8 ottobre. 

Il limite di esposizione scende da 100.000 a 2.000 fibre per mc

Il decreto abbassa drasticamente il limite di esposizione professionale, da 100.000 a 2.000 fibre per metro cubo. 

Priorità di rimozione e formazione dei lavoratori

Si introduce l’obbligo di valutare la priorità di rimozione dell’amianto in edifici e navi e di assicurare l’adeguata formazione dei lavoratori. 

Esteso a 40 anni l’obbligo di conservazione dei documenti

Viene esteso a 40 anni (dopo la fine dell’esposizione) l’obbligo di conservazione delle cartelle sanitarie e della documentazione sulla formazione e sull’esposizione, a tutela della salute a lungo termine.

Amianto : Malattia professionale

Amianto e malattia professionale, il datore risponde anche decenni dopo

Il lavoratore era stato posto con elevata frequenza a contatto con serbatoi e tubazioni realizzati in cemento amianto. Non risultavano adottate adeguate misure di prevenzione nell’ambito della sorveglianza sanitaria e il lavoratore era stato riconosciuto affetto da asbestosi al 10%, poi all’85% ed infine al 100% in sede INAIL che aveva affermato la natura professionale del carcinoma. La Corte d’appello ritiene mancante una specifica omissione datoriale per la malattia professionale.

La responsabilità civile del datore di lavoro viene radicata non sullo svolgimento di una mera attività pericolosa, bensì esclusivamente dal modo con cui è stata esercitata (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, ordinanza 22 agosto 2025, n. 23673)

La Corte d’appello di L’Aquila ha respinto il ricorso proposto dagli eredi della vittima deceduta per carcinoma polmonare metastatico, conseguente ad asbestosi contratta per prolungata esposizione a fibre di amianto. Gli eredi indicano che il loro dante causa era stato esposto all’azione nociva delle fibre d’amianto contenute nelle condotte idriche su cui eseguiva quotidiani interventi di manutenzione, in ragione delle mansioni di acquaiolo svolte dal 1961 al 1996.

La Corte d’appello ha accertato, in base alla CTU, che il lavoratore era stato posto con elevata frequenza a contatto con serbatoi e tubazioni realizzati in cemento amianto e che non risultavano adottate adeguate misure di prevenzione nell’ambito della sorveglianza sanitaria del lavoratore medesimo e che il lavoratore era stato riconosciuto affetto da asbestosi al 10%, poi all’85% ed infine al 100% in sede INAIL che aveva pure affermato la natura professionale del carcinoma.

Secondo i Giudici di appello, essendo stato il ricorso proposto oltre 20 anni dopo la cessazione del rapporto lavorativo, era evidente la difficoltà per il datore di lavoro di provare il corretto adempimento degli obblighi di prevenzione e sicurezza. Inoltre, trattandosi di un rapporto lavorativo iniziato in epoca risalente (1961) e conclusosi nel 1996, non poteva applicarsi in via retroattiva la normativa di difesa dall’amianto entrata in vigore successivamente ( con il dlgs. 626/94, dlgs. 81/2008, ed il dlgs. 106/2009), né poteva essere valorizzata la precedente disciplina del D.P.R. 303/1956 che si riferiva solo alle polveri in generale. In definitiva, sempre secondo la Corte di appello, solo a partire dagli anni 1991/92 poteva affermarsi che costituisse fatto notorio la correlazione causale fra l’esposizione a fibre d’amianto e il carcinoma polmonare.

In definitiva, secondo la Corte di appello, le emergenze istruttorie non apparivano univoche in ordine ai presupposti della durata e della continuità dell’esposizione al rischio denunziato, per cui alla luce della documentazione in atti e dell’istruttoria espletata è stata ritenuta non fornita la prova sufficiente della sussistenza di una specifica omissione datoriale nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerita dalla particolarità del lavoro dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno. Ed andava altresì escluso il nesso causale nonostante la CTU avesse affermato il contrario.

L’intervento della Cassazione

Viene lamentata la ritenuta prova insufficiente gravante sul datore di lavoro; la circostanza che all’epoca in cui il lavoratore aveva contratto il male non era ancora nota la particolare insidiosità dell’amianto.

Le censure sono fondate in quanto la decisione della Corte di appello risulta affetta da plurime violazioni di legge sotto molteplici e concorrenti profili sia logici che giuridici.

In primo luogo, è giuridicamente errato avere negato l’obbligo del datore di lavoro di rispettare la normativa sulle polveri ex art. 21 dpr 303/56 ed anche quella sulle fibre di amianto ex D.Lgs. n. 277/1991, pur essendo il rapporto di lavoro in oggetto cessato nel 1996.

In secondo luogo, la responsabilità conseguente alla violazione dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, sicché il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio, o l’Istituto assicuratore che agisca in via di regresso, deve allegare e provare la esistenza dell’obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.

In terzo luogo, la sentenza è errata laddove sostiene che nel giudizio di responsabilità civile era necessario accertare e dimostrare la presenza di una determinata esposizione quantitativa e qualitativa alle fibre di amianto.

In quarto luogo, la Corte ha errato nel non considerare che il nesso causale tra la neoplasia e l’attività di lavoro, già accertato dall’INAIL, era stato ampiamente e logicamente riconosciuto dal CTU sulla base di una serie di elementi – clinici, logici, di fatto, temporali, ivi compreso il prelievo autoptico – del tutto rispondenti ai principi consolidati circa l’accertamento del nesso eziologico in ambito professionale.

In quinto luogo, i Giudici di appello non hanno tenuto conto che, come osservato dal CTU, il lavoratore deceduto aveva contratto proprio l’asbestosi (col 100% di invalidità) che è una malattia professionale tabellata che deriva dalla forte esposizione all’amianto; una malattia c.d. sentinella quindi di una esposizione qualitativamente e quantitativamente molto sostenuta, com’è appunto quella professionale, che si pone quindi quale antecedente causale più probabile del carcinoma polmonare che ha condotto al decesso il lavoratore.

Asbetosi inserita nell’elenco delle malattie professionali tipizzate

In tutto ciò si aggiunga che l’asbestosi – malattia mortale e produttiva di una significativa riduzione della aspettativa di vita – è stata inserita nell’elenco delle malattie professionali tipizzate fin dalla Legge n. 455 del 1943.

La S.C. ha di recente chiarito che ai fini della configurazione della responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 c.c. non occorre in capo all’imprenditore la prevedibilità dello specifico evento concretamente verificatosi, o del suo decorso causale, ma è sufficiente quella della potenziale idoneità della condotta a provocare un danno grave alla salute, sicché, ai fini dell’esonero da tale responsabilità, occorre dimostrare quali misure di prevenzione ed informazione, fra quelle conosciute ed in uso all’epoca, sono state concretamente adottate a protezione dello specifico rischio lavorativo.

A tutto quanto sopra indicato fa da corollario la circostanza pacifica che la responsabilità civile del datore di lavoro non viene radicata sullo svolgimento di una mera attività pericolosa (in sé lecita ed autorizzata), comportante l’utilizzo di amianto; poiché essa deriva non già dall’attività di impresa in sé e per sé considerata, bensì esclusivamente dal modo con cui è stata esercitata. La datrice di lavoro viene, cioè, chiamata a rispondere dell’omissione di cautele doverose, prescritte da norme di legge in vigore a quell’epoca.

La decisione resa dalla Corte di appello non ha rispettato i principi sopra indicati.

Avv. Emanuela Foligno

Amianto : Sentenze

Per trent’anni ha lavorato a contatto con l’amianto. L’Inps dovrà pagare

La Corte d’appello riconosce a un’ex operaia della Videocolor l’indennizzo per il danno biologico. Ha lavorato a contatto con coibentazioni contenenti asbesto e si è ammalata

Ha respirato amianto per quasi trent’anni senza saperlo. Oggi, a 56 anni, provata da una grave pneumopatia interstiziale, M.R., ex operaia della storica Videocolor di Anagni (ex Vdc Technologies Spa) ha finalmente ottenuto giustizia. Dopo il primo grado di giudizio celebrato al tribunale di Frosinone con la condanna dell’Inail a indennizzare il danno biologico per la malattia professionale, la Corte d’appello di Roma ha ora condannato l’Inps a riconoscerle le maggiorazioni contributive per la lunga esposizione alla sostanza cancerogena e alla ricostituzione della posizione contributiva per il periodo di lavoro che va dal 1979 al 2006.

La Vdc Technologies Spa produceva componenti elettronici, in particolare cinescopi per televisori a colori. Per la donna, che era impiegata tra il reparto pedana, la sala maschere e il reparto vuoto, l’esposizione all’amianto era inevitabile: i macchinari, i forni per i cinescopi, le vasche e i ventilatori erano infatti rivestiti di pannelli e coibentazioni contenenti questa sostanza, detta anche asbesto. Nel 2015 la donna ha accusato i primi sintomitosse, fiato corto, dispnea. La diagnosi è arrivata poco dopo con un verdetto che non lascia scampo: malattia professionale asbesto-correlata. La sentenza riconosce non solo la malattia: la donna, già in pensione da quattro anni, sarà indennizzata con circa 20.000 euro di arretrati e un aumento mensile sulla pensione di circa 500 euro.

Amianto : Sentenze

Amianto killer: Fincantieri condannata, pagherà un milione di euro alla famiglia di un operaio

La somma andrà ai familiari di un operaio morto di mesotelioma pleurico. L’uomo, poco più che settantenne, aveva lavorato per anni come saldatore nel cantiere navale bisiaco

Il Tribunale di Gorizia ha condannato Fincantieri al risarcimento di circa un milione di euro ai familiari di un operaio morto di mesotelioma pleurico. L’uomo, poco più che settantenne, aveva lavorato per anni come saldatore nel cantiere navale di Monfalcone, a stretto contatto con materiali contenenti amianto e senza adeguate protezioni.

La perizia medico-legale ha confermato il nesso diretto tra l’esposizione professionale alle fibre killer e la malattia che lo ha condotto alla morte. Secondo gli accertamenti, il lavoratore fu costretto a manipolare amianto friabile in ambienti privi di aerazione e senza dispositivi di protezione individuale come mascherine e tute. Il Tribunale ha ritenuto esclusivamente responsabile Fincantieri, che non ha dimostrato di aver adottato misure tecniche e organizzative idonee. Si legge in sentenza: «Il datore di lavoro ha omesso di predisporre tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore sul luogo di lavoro. È mancata la vigilanza sull’uso dei dispositivi di protezione e non sono state adottate misure organizzative per confinare le lavorazioni nocive».

Amianto : Cinema

Amianto. Genova: storia di una lotta operaia

Viene proiettato al Club Amici del Cinema il docufilm “Amianto. Genova: storia di una lotta operaia” che racconta la battaglia sindacale, durata oltre 10 anni, che ha coinvolto la classe operaia genovese per vedersi restituire i propri diritti.

Il documentario è nato da un’idea di Marcello Zinola e della Camera del lavoro di Genova con la regia di Ugo Roffi.

Realizzata in collaborazione con il Premio Cinematografico Stefano Pittaluga, l’iniziativa fa parte di “Fuori dal centro – Festival. Film, musica, incontri”, manifestazione culturale curata da Giancarlo Giraud e Valentina Damiani e organizzata da ACEC-S.A.S. Liguria insieme ad ARCI-UCCA.

Alla proiezione parteciperanno Igor Magni, segretario Camera del lavoro di Genova, Albino Ostet, ex lavoratore Ansaldo, i registi Ugo Roffi e Ludovica Schiaroli, il giornalista Marcello Zinola e Juri Saitta, critico cinematografico. Modera il dibattito, che segue il docufilm, Andrea Castanini, vicedirettore del Secolo XIX.

Il documentario: Per quasi un decennio oltre 1400 lavoratori, alcuni malati o deceduti, colpiti dall’esposizione all’amianto sono stati indagati come truffatori dimenticando i danni inoppugnabili provocati dall’asbesto. Tra il 1994 e il 2020 l’Inail ha registrato in Liguria oltre 3.600 decessi provocati dall’esposizione all’amianto, di cui oltre la metà a Genova. 

La storia inizia con l’inchiesta della magistratura genovese che ha visto inquisiti ben 1400 ex operai: iniziata nel 2006 e conclusa dopo dieci anni, l’inchiesta è terminata con un nulla di fatto e ha avuto come conseguenza la lotta sindacale che ne è seguita e che ha dovuto combattere indifferenze, spesso il pregiudizio mediatico, l’ondivago atteggiamento politico confermato dalle recenti e assurde decisioni sul fondo amianto.

Una lotta vincente, per molti aspetti unica, perché mentre nel resto d’Italia venivano riconosciuti i diritti degli esposti, a Genova lavoratori e lavoratrici venivano messi sotto inchiesta. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori coinvolti non hanno mai chiesto o cercato la vendetta ma chiarezza, verità e giustizia anche per restituire la dignità ai malati, alle vittime, ai loro familiari, alla classe lavoratrice offesa con accuse infondate e infamanti.

La storia si sviluppa attraverso il racconto di alcuni dei protagonisti di quella lotta: Albino Ostet, ex lavoratore Ansaldo Energia, Barbara Storace, avvocato che seguì per il sindacato le cause civili dei lavoratori, il giornalista Marcello Zinola e per il sindacato Ivano Bosco, allora segretario della Cgil di Genova, Armando Palombo, allora delegato per la Fiom Cgil e Igor Magni, Segretario Generale della Camera del Lavoro.

Riprese della Genova di oggi si alternano a filmati, foto e materiali dagli archivi della Camera del lavoro, della Biblioteca Berio, della Biblioteca Universitaria, della Fondazione Ansaldo, delle Teche Rai e di giornalisti e giornaliste genovesi. 

Il documentario è stato selezionato e parteciperà a Flight – Mostra Internazionale del Cinema di Genova 2025, dedicata al cinema sperimentale e di ricerca, e al Clorofilla Film Festival 2025, che dà spazio a tematiche sociali e ambientali. 

Amianto: Sentenze

Amianto, la svolta: impiegata colpita da mesotelioma vince causa pilota

Lavorava in uno zuccherificio e occasionalmente si avvicinava alle vasche. L’Inail condannata a pagarle una rendita mensile. Decisive le testimonianze dei colleghi

Bologna, 3 settembre 2025 – La signora Valeria – il nome è di fantasia – ha lavorato come impiegata amministrativa in uno zuccherificio bolognese per quasi vent’anni, dal 1964 al 1973.

In quel periodo, la cottura dello zucchero veniva fatta in vasconi di amianto.

Valeria, pur avendo l’ufficio in un edificio parallelo allo stabilimento produttivo, vi si doveva recare di continuo per registrare i dati necessari alle sue mansioni. La signora, oggi ultrasettantenne e in pensione, si è ammalata di mesotelioma pleurico.

La condanna dell’Inail

E il Tribunale del lavoro di Bologna, accogliendo la sua causa civile, ha riconosciuto la patologia come legata alla professione, condannando l’Inail – che aveva dato parere negativo – a pagarle una rendita mensile.

L’esposizione indiretta all’amianto e il mesotelioma

“Una sentenza importante – spiega l’avvocata Giovanna Longhi che, insieme al collega Giorgio Sacco, ha seguito la vicenda per conto del patronato Inca Cgil –, perché riconosce che anche un’esposizione indiretta all’amianto può bastare a causare il mesotelioma pleurico”.

La sentenza della giudice Chiara Zompì è di primo grado, ma l’Inail non ha fatto appello, quindi è definitiva.

Decisive le testimonianze dei colleghi

“Decisive per provare la correlazione con il lavoro sono state le testimonianze dei colleghi della ricorrente e il parere del Consulente tecnico d’ufficio – osserva Longhi –. Fondamentale l’assistenza di Inca e Associazione vittime amianto (Afeva): c’è chi rinuncia a fare causa per timore di dover pagare le spese legali, in caso di sconfitta”.

Responsabilità del datore di lavoro per esposizione ad amianto: la Cassazione ribalta la decisione d’Appello

Cassazione 2025: accolta la domanda degli eredi di un lavoratore esposto all’amianto. Confermata la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. anche in assenza di dati quantitativi sull’esposizione

L’esposizione a fibre di amianto rappresenta una delle più gravi minacce per la salute nei luoghi di lavoro, specialmente nel settore edilizio e manutentivo, dove materiali contenenti amianto sono stati storicamente utilizzati. Un caso recente è stato discusso dalla Corte Suprema di Cassazione italiana che ha ribadito con fermezza la responsabilità del datore di lavoro nel garantire adeguate misure di sicurezza e prevenzione, anche in contesti lavorativi risalenti a decenni fa.

Il caso riguarda un lavoratore che, dal 1961 al 1996, ha svolto mansioni quotidiane di manutenzione e riparazione su condotte idriche realizzate in cemento amianto (eternit). Nonostante fosse emersa una situazione di rischio elevata, con il lavoratore riconosciuto affetto da asbestosi (una malattia professionale causata dall’inalazione delle fibre di amianto) e successivamente colpito da carcinoma polmonare metastatico, il datore di lavoro (un consorzio di bonifica) aveva negato le responsabilità.

Gli eredi del lavoratore hanno richiesto il risarcimento dei danni per il decesso legato all’esposizione ad amianto, denunciando la mancata adozione di misure di prevenzione, la mancanza di sorveglianza sanitaria, la carenza di dispositivi di protezione individuale e l’assenza di formazione e informazione sul rischio

La difesa e la sentenza della Corte d’Appello

La Corte d’Appello aveva respinto la domanda degli eredi, basandosi su alcuni argomenti principali:

  • il ricorso era stato proposto oltre vent’anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro, rendendo difficile dimostrare l’esatto adempimento delle misure di sicurezza;
  • le norme specifiche sull’amianto (D.Lgs. 277/1991, D.Lgs. 626/1994 e successivi) erano entrate in vigore solo negli anni ’90, quindi non potevano applicarsi retroattivamente a gran parte del rapporto;
  • la correlazione tra esposizione ad amianto e tumori polmonari era diventata “fatto notorio” solo dal 1991/1992;
  • mancanza di una quantificazione certa dell’esposizione (dose cumulativa di fibre inalate), elemento ritenuto indispensabile per provare il nesso causale.
  • In sostanza, la Corte d’Appello ha respinto l’eccezione di prescrizione sollevata in relazione all’azione di risarcimento del danno iure hereditatis ed ha invece accolto il motivo di ricorso relativo all’insussistenza di profili di imputabilità colpevole del Consorzio ex art. 2087.

Amianto: Sentenze

Capraia, muore vittima dell’amianto in una centrale Enel: l’ente condannato a risarcire la famiglia con 180 mila euro

L’uomo per anni era stato un motorista presso la centrale elettrica di Capraia Isola, poi aveva contratto un tumore

Nel 2020 scopre di avere un mesotelioma pleurico ma è anche cardiopatico e nonostante le terapia oncologiche, dopo soli 12 mesi muore. Ora i familiari saranno risarciti dall’Enel. L’uomo per anni era stato un motorista presso la centrale elettrica di Capraia Isola, e subito dopo aver scoperto la malattia aveva richiesto all’Inail di essere inserito nelle liste dei lavoratori che hanno contratto un tumore sul luogo di lavoro per via della presenza di amianto.

L’ente gli riconosce lo status e lui avvia una causa di risarcimento danni al suo ex datore di lavoro, l’Enel, ma dopo le prime udienze sopraffatto dal male muore. Sua moglie e i suoi 4 figli riassumono la causa al Tribunale di Livorno che al termine del processo di primo grado riconosce il risarcimento perché l’Enel non avrebbe “protetto” i suoi dipendenti.

Non è la prima causa, infatti, che vede coinvolta la centrale elettrica di Capraia Isola. Nei giorni scorsi però la corte d’Appello di Firenze ha aumentato il totale del risarcimento che ammonta a circa 180 mila euro. Per i giudici di secondo grado «da sempre il lavoratore ha diritto ad essere protetto dalle polveri dell’ambiente di lavoro, a maggior ragione da quelle delle quali il datore conosceva, o doveva conoscere, esistenza e nocività», come nel caso di polveri e fibre di amianto. 

L’Inail quando l’uomo era ancora in vita, gli aveva già riconosciuto un indennizzo e la rendita prevista in questi casi di malattie professionali, ora i familiari avranno anche il risarcimento che finora non era arrivato perché l’Enel aveva impugnato la sentenza di primo grado. L’Enel, come molte altre aziende del settore, ha utilizzato l’amianto per le sue proprietà di resistenza al fuoco e al calore. Tuttavia, l’uso dell’amianto è stato progressivamente abbandonato proprio a causa dei gravi rischi per la salute legati all’inalazione delle fibre e delle polveri. 

L’operaio livornese aveva lavorato a contatto con l’amianto dal 1967 al 1969 e dal 1981 al 2003 prima di andare in pensione per poi ammalarsi e morire in meno di un anno. Per i giudici fiorentini l’amianto respirato a Capraia è la concausa, insieme alle sue patologie cardiache, del suo decesso. Queste le conclusioni processuali dopo testimonianze e perizie. I legali dei familiari dell’ex operaio dell’Enel avevano chiesto oltre 1 milione di euro di risarcimento.

«Asbestosi nota dal 1943»: risarcimento ai familiari del lavoratore vittima di amianto

Dal 1961 al 1996 un acquaiolo aveva riparato condotte idriche anche con tubi di eternit. Per la Corte d’Appello solo dal 91/92 il rischio amianto era fatto notorio

L’asbestosi è stata inserita tra le malattie mortali già dal 1943, il giudice non può dunque negare il risarcimento per la morte del lavoratore affermando una scarsa consapevolezza dei rischi da parte del datore di lavoro. La Cassazione accoglie così il ricorso della moglie e dei tre figli di un “acquaiolo”, che aveva lavorato per 35 anni, dal 1961 al 1996, con tubi di eternit, esposto alle fibre cancerogene dell’amianto senza protezioni. Nel 2012 è morto di carcinoma polmonare, dopo una diagnosi di asbestosi al 10%, poi all’85% e infine al 100%.

L’Inail, come il Ctu, avevano riconosciuto la natura professionale della malattia. Conclusioni avallate dal giudice del lavoro che aveva condannato il Consorzio di bonifica per il quale lavorava l’operaio a risarcire i familiari con circa 900mila euro.

Un verdetto completamente ribaltato in appello. La Corte territoriale, infatti, aveva escluso il diritto al risarcimento pur avendo accertato, in base alla perizia, «che il lavoratore era stato posto con elevata frequenza a contatto con serbatoi e tubazioni realizzati in cemento amianto su cui eseguiva interventi di manutenzione e riparazione; che non risultavano adottate adeguate misure di prevenzione nell’ambito della sorveglianza sanitaria del lavoratore medesimo». Neppure era servito il riconoscimento da parte dell’Inail dell’asbestosi – degenerata nel tempo in carcinoma con metastasi – come malattia di origine professionale.

Per i giudici di seconda istanza un ricorso proposto dagli eredi dopo oltre 20 anni dalla fine del rapporto di lavoro, rendeva difficile al datore provare il rispetto degli obblighi di prevenzione e sicurezza. A giocare contro il sì al risarcimento c’era, ancora una volta, il tempo: il lavoro era iniziato nel 1961 e si era concluso nel 1996. Non si potevano, dunque, applicare in via retroattiva la normativa di difesa dall’amianto entrata in vigore con i Dlgs 626/94, 81/2008, e 106/2009. Nè poteva essere valorizzata la precedente disciplina del Dpr 303/1956 che si riferiva solo alle polveri in generale. Secondo la Corte di appello, solo a partire dagli anni 1991/92 si poteva considerare un fatto notorio la correlazione causale fra l’esposizione a fibre d’amianto e il carcinoma polmonare.

Per finire il Ctu aveva basato le sue conclusioni sull’origine professionale delle patologie, riconosciute anche dall’Inail, senza individuare i parametri quantitativi dell’esposizione, «indispensabili al fine di valutare la dose cumulativa di fibre d’amianto espressa come fibre anno per centimetro cubico d’aria». Quindi l’accertamento non era attendibile. La Suprema corte prende, però, nettamente le distanze dalle tesi della Corte d’Appello, alla quale rinvia perchè riveda un giudizio, a tratti addirittura contrario alla legge.

Rischi noti all’epoca dei fatti

La decisione non è in linea con l’ordinamento innanzitutto nel negare un obbligo del datore di lavoro di rispettare la normativa sulle polveri (Dpr 303/56) e anche quella sulle fibre di amianto (Dlgs. n. 277/1991), pur essendo il rapporto di lavoro cessato nel 1996. Sbaglia ancora la Corte di merito, quando addossa ai familiari l’obbligo di dimostrare gli inadempimenti del Consorzio e quando sostiene che nel giudizio di responsabilità civile sia necessario accertare e dimostrare la presenza di una determinata esposizione quantitativa e qualitativa alle fibre di amianto. Non è comprensibile neppure il non aver tenuto conto del nesso causale tra la neoplasia e l’attività di lavoro, già accertato dall’Inail, ampiamente e logicamente riconosciuto dal Ctu sulla base di una serie di elementi – clinici, logici, di fatto, temporali, compreso un prelievo autoptico. Non una prova assoluta dunque, non necessaria, ma una «alta probabilità logica» del collegamento esposizione-malattia.

La Cassazione è costretta a ricordare che il lavoratore aveva contratto proprio l’asbestosi col 100% di invalidità, una malattia professionale tabellata che deriva dalla forte esposizione all’amianto e “sentinella” in quanto spia di una esposizione qualitativamente e quantitativamente molto sostenuta. Una patologia mortale, inserita nell’elenco delle malattie professionali tipizzate fin dal 1943.

Amianto : Sentenze

Operaio della Marina militare morto a 52 anni per amianto, risarcimento di 700mila euro ai familiari

L’uomo, originario di Catania, aveva prestato servizio per due anni (dal 1984 al 1986) presso il Maricentro di Taranto e a bordo della nave Intrepido, dove lavorava nei locali motori, circondato da fibre di amianto invisibili e letali

E’ diventata definitiva la sentenza del tribunale del Lavoro di Siracusa che ha riconosciuto Francesco Tomasi, meccanico navale della Marina Militare, come vittima del dovere, dopo la sua morte per un tumore polmonare causato dall’esposizione all’amianto. Aveva solo 52 anni. L’uomo, originario di Catania, aveva prestato servizio per due anni (dal 1984 al 1986) presso il Maricentro di Taranto e a bordo della nave Intrepido, dove lavorava nei locali motori, circondato da fibre di amianto invisibili e letali che, nonostante fosse ben nota da tempo la pericolosità, respirava quotidianamente, senza tutele, senza dispositivi di protezione individuale. 

Nel giugno del 2017, la diagnosi: tumore al polmone. In solo quattro mesi, nell’ottobre dello stesso anno, Tomasi muore lasciando la moglie e due figli. È stato l’inizio di una lunga e dolorosa battaglia legale, portata avanti dalla famiglia con l’assistenza dell’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto. Dopo il diniego iniziale da parte delle autorità competenti, il tribunale ha finalmente riconosciuto l’equiparazione a vittima del dovere, con il relativo diritto a ricevere i benefici previsti per i familiari. 

Il Ministero della Difesa è stato condannato a versare alla vedova e alla figlia circa 700 mila euro complessivi – tra speciale elargizione (300 mila euro) e vitalizi arretrati (400 mila euro) – oltre a un vitalizio mensile di circa 2 mila e 400 euro. “Questa sentenza restituisce un frammento di giustizia a una famiglia segnata per sempre dalla perdita e dal silenzio istituzionale”, spiega Bonanni. “Francesco Tomasi è uno dei tanti militari che hanno servito il Paese con onore, inconsapevolmente esposti a una sostanza letale – aggiunge -. L’amianto ha ucciso in modo lento e crudele, e ancora oggi le famiglie devono affrontare processi lunghi e dolorosi per vedere riconosciuti i propri diritti. È una doppia ingiustizia che non possiamo più tollerare”. 

Amianto : Sentenze

Esposizione all’amianto, riconosciuto danno terminale ma non danno parentale

La vicenda riguarda la responsabilità del Ministero della Difesa e del datore di lavoro per l’omessa prevenzione dell’esposizione all’amianto, che ha portato al decesso della vittima per mesotelioma. La Corte d’Appello di Lecce ha riconosciuto un risarcimento iure hereditatis per il danno terminale subito dal lavoratore esposto all’amianto, rigettando però la richiesta dei familiari per il danno parentale iure proprio. La Cassazione conferma la sentenza d’appello, ribadendo la corretta valutazione del nesso causale e l’inammissibilità del danno parentale in assenza dei presupposti.

L’esposizione all’amianto, la malattia e il decesso

La Corte d’appello di Lecce condanna in solido il datore di lavoro e il Ministero della Difesa a pagare, a titolo di danno non patrimoniale terminale iure hereditatis, l’importo di 185.918,00 oltre accessori. Ha dichiarato inoltre inammissibile la domanda di risarcimento danni iure proprio formulata dagli appellanti a titolo di danno parentale.

Secondo la Corte d’appello, la responsabilità del Ministero della Difesa sussiste ai sensi dell’articolo 2051 c.c., poiché la patologia contratta dal lavoratore – che ne ha causato successivamente il decesso – è risultata riconducibile all’esposizione all’amianto. Tale esposizione è avvenuta durante l’esecuzione di attività oggetto di appalto, in ambienti contaminati costituiti da navi, ponti di volo e dall’intera area dell’arsenale, tutti beni di proprietà del Ministero.

Quest’ultimo per andare esente della responsabilità ex art. 2051 c.c., avrebbe dovuto dimostrare di aver scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di aver esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull’attività dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno potesse ritenersi causato da una condotta dell’appaltatore non prevedibile e/o evitabile quindi in sostanza riconducibile all’ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del terzo.

Oltre a ciò la documentazione allegata dal Ministero evidenziava la piena consapevolezza da parte della Marina militare del rischio per la salute costituita dall’attività di coibentazione e rimozione dell’amianto oggetto di appalto.

CTU: il mesotelioma cagionato dall’esposizione all’amianto

ICTU medico-legale ha confermato che il decesso della vittima per mesotelioma maligno era stato cagionato dall’esposizione all’amianto.

Per quanto concerne la liquidazione del danno, i Giudici di appello hanno il danno biologico secondo le indicazioni tabellari fornite dal CTU osservando che “la particolarità del caso in esame – come ben evidenziato il CTU nella risposta ai quesiti formulati dalla Corte, che, erroneamente, includevano anche quello relativo al danno biologico per invalidità permanente che nella specie non è ipotizzabile stante l’exitus del lavoratore – è che alla malattia contratta è sopraggiunta la morte”.

I Giudici di appello, in sostanza, hanno seguito il consolidato orientamento secondo cui sopraggiunta la morte, il danno biologico doveva essere correttamente liquidato secondo il criterio della invalidità temporanea sub specie di danno terminale – da trasmettere agli eredi – nelle varie componenti di danno biologico e di danno morale (o catastrofale), considerata la durata della grave malattia dalla data della diagnosi fino al decesso. Per i 2 anni e 309 giorni di sofferenza, intercorsi tra la diagnosi della malattia ed il decesso, i giudici hanno liquidato l’importo pari a 185.918,00 secondo il criterio unitario ed i valori a scalare propri della tabella di Milano sul danno terminale.

L’intervento della Cassazione

Secondo la società datrice di lavoro della vittima la Corte di appello avrebbe errato nel non adeguatamente valutare il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro intercorso con il lavoratore in relazione alla patologia contratta ed alla luce delle considerazioni cliniche esposte dal CTU nell’elaborato peritale.

Quanto censurato è infondato. La Corte di appello ha innanzitutto valutato il reale atteggiarsi del rapporto di lavoro della vittima tanto che sul punto ha rinnovato l’esame dei testimoni per verificare in quale ambiente e con quali modalità egli avesse in concreto lavorato. Quindi non ha omesso di valutare alcun fatto decisivo, né ha contraddetto le tesi e le conclusioni sostenute dalla CTU, ma le ha valutate integrandole logicamente alla luce della istruttoria testimoniale espletata e della corretta applicazione delle norme giuridiche

La Corte ha infatti affermato, sulla scorta delle rinnovate prove testimoniali, che vi fu una esposizione all’amianto- non solo nel periodo di lavoro precedentemente svolto alle dipendenze di una cooperativa, ma anche nel periodo di lavoro successivo svolto presso il datore coinvolto nel giudizio in parola. Posto che anche questa impresa effettuava lavori di decoibentazione dei rivestimenti di amianto dalle navi senza osservare le prescrizioni di legge, mentre il lavoratore era adibito a lavori di pulizia (pulizia di sentine, cassa olio e casse acqua) a bordo nave; per cui egli rimaneva esposto all’azione nociva delle fibre pericolose sprigionatesi nello stesso ambiente.

La esposizione al fattore nocivo e pericoloso (primo elemento del nesso di causa) è dimostrato secondo la Corte dallo svolgimento del rapporto dal 1998 al 2006 in queste condizioni (mentre dal 2006 al 2010 la vittima è stato posta in cassa integrazione).

Le prove testimoniali

Si ritiene, pertanto, che legittimamente la Corte, dovendo “sciogliere il dubbio” sul punto ha chiesto chiarimenti ai testimoni, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva delimitato la esposizione solo al primo periodo di lavoro svolto alle dipendenze della Cooperativa.

Ciò ha condotto a ritenere che l’esposizione a rischio, che il Consulente ha riferito essersi consumata solo nel primo periodo, doveva dirsi avvenuta anche nel secondo periodo di lavoro svolto alle dipendenze della datrice convenuta sul presupposto di fatto accertato che il lavoro effettuato dalla vittima non era diverso nel primo e nel secondo periodo.

Per completezza si aggiunge che il CTU ha evidentemente formulato una diagnosi di derivazione causale in termini generali, riferendola all’esposizione complessiva subita dal lavoratore, senza distinguere tra il primo ed il secondo periodo di occupazione. Inoltre la (importante) complessa questione relativa a quale tra le esposizioni subite dal lavoratore sia stata effettivamente influente sullo sviluppo del tumore non è invece affrontata nei motivi di ricorso.

La sentenza di appello risulta quindi del tutto conforme al diritto e si sottrae alle infondate censure sollevate.

Avv. Emanuela Foligno

Amianto : Sentenze

Malato per l’amianto su lavoro”, Ministero della Difesa condannato. La sentenza della Corte dei Conti

Al lavoratore spezzino è stato concesso un compenso pari a quattro annualità di stipendio. La sua storia professionale richiama quella di moltissimi dipendenti dell’Arsenale

Dopo una lunga battaglia giudiziaria durata quattro anni, la Corte di Appello di Genova ha confermato la condanna del Ministero della Difesa, imponendo il pagamento di oltre 200mila euro di risarcimento alla famiglia di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico. La malattia, che lo ha portato alla morte nel 2022, è stata causata dall’esposizione all’amianto presso l’Arsenale della Marina Militare della Spezia, dove l’uomo ha lavorato per 38 anni.

La sentenza di secondo grado rigetta l’appello presentato dal Ministero contro la precedente decisione del Tribunale di La Spezia. La Corte ha ritenuto pienamente fondate le ragioni della vedova e dei figli, rappresentati dall’avvocato Cosimo Lovelli, confermando integralmente il risarcimento stabilito in primo grado.

Il lavoratore, impiegato in diverse mansioni all’interno dell’Arsenale, aveva iniziato a manifestare gravi problemi di salute dopo il pensionamento. I sintomi si sono aggravati fino alla diagnosi di mesotelioma, una patologia gravemente invalidante e strettamente correlata all’inalazione di fibre di amianto. La morte è sopraggiunta nel 2022, chiudendo un calvario clinico e personale durato mesi.

La causa è stata sostenuta dalla FNP-CISL di La Spezia, dove il pensionato si era rivolto in cerca di tutela. Il sindacato, attraverso l’impegno del responsabile Antonio Montani , ha seguito il caso fino alla definitiva vittoria in Appello, esprimendo grande soddisfazione per il riconoscimento dei diritti dei familiari.

Dipendente del Comune di Castelbuono morì per un cancro causato dall’amianto, l’Inail dovrà risarcire i familiari

Il giudice del lavoro ha riconosciuto l’origine professionale della malattia contratta da Giuseppe Failla. Alla vedova, sarà ora corrisposta una rendita mensile, oltre agli arretrati e alle maggiorazioni del Fondo vittime amianto, per un totale di circa 150.000 euro

Il tribunale del lavoro di Termini Imerese ha condannato l’Inail al risarcimento previdenziale in favore della vedova di Giuseppe Failla, storico dipendente del Comune di Castelbuono, paese in cui era nato, scomparso a 64 anni per mesotelioma pleurico, un cancro devastante causato dall’esposizione all’amianto. La sentenza ha riconosciuto l’origine professionale della malattia contratta da Failla. Alla vedova, sarà ora corrisposta una rendita mensile, oltre agli arretrati e alle maggiorazioni del Fondo vittime amianto, per un totale di circa 150.000 euro, secondo stime dell’Osservatorio nazionale amianto.

Giuseppe Failla ha lavorato per 33 anni al Comune di Castelbuono, prima nell’ambito ambientale, poi nei settori manutentivi e amministrativi. Per oltre vent’anni si è occupato di salvaguardia dell’ambiente (acqua, suolo, atmosfera), con gestione del servizio di raccolta e discarica dei rifiuti solidi urbani, tra cui quella di Santa Lucia e quella di Cassanisa, operando a stretto contatto con rifiuti pericolosi, spesso contenenti amianto, in siti contaminati e magazzini comunali fatiscenti, come l’ex cineteatro“Le Fontanelle dove le coperture in eternit erano in evidente stato di degrado, svolgendo regolarmente sopralluoghi, delimitazioni di aree e classificazioni dei materiali pericolosi. Più volte fu nominato responsabile per la gestione di eternit abbandonato, con esposizioni documentate e dirette a polveri di amianto, senza adeguate tutele.

Amianto : Sentenze

Cassazione Penale, Sez. 4, 20 marzo 2025, n. 11168 ha riconosciuto il nesso causale tra l’esposizione all’amianto e il mesotelioma pleurico, evidenziando che ogni esposizione contribuisce in modo concorrente al rischio e che il rischio è proporzionale a tempo e intensità di esposizione. Tuttavia, la Corte di Appello di Palermo aveva in parte ribaltato la sentenza in primo grado, escludendo la responsabilità penale di alcuni imputati per il fatto che la loro posizione di garanzia era successiva al 1981, anno in cui il rischio di esposizione era stato superato solo fino a quel momento. La Cassazione ha comunque sottolineato che la prolungata esposizione, anche fino agli anni ’80 e oltre, ha un effetto causale certo nella genesi del mesotelioma, confermando la responsabilità dei dirigenti che non hanno adottato misure adeguate di prevenzione e informazione.

Cassazione Penale, Sez. 4, 17 aprile 2025, n. 15220 ha ulteriormente precisato la responsabilità del management aziendale, in particolare di A.A., per la gestione negligente del rischio amianto negli stabilimenti Eternit dal 1954 al 1985, sottolineando come la mancata adozione di misure di risanamento e la disinformazione ai lavoratori costituiscano profili di colpa rilevanti ai fini penali

In tema di causalità individuale del mesotelioma da amianto, una sentenza della Cassazione del 15 aprile 2025 ha rigettato la teoria dell’“effetto acceleratore” come base scientifica sufficiente per dimostrare la causalità individuale, ma ha confermato la validità del criterio dell’esclusione di altre cause alternative di esposizione. In pratica, se si dimostra che la persona ha lavorato esclusivamente in un ambiente con amianto senza altre esposizioni significative, si può affermare con ragionevole certezza il nesso causale tra esposizione e malattia2.

Infine, nel 2025 la Cassazione ha anche introdotto un principio importante in materia di rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto, stabilendo che il termine di prescrizione è legato alla conoscenza dell’esposizione e non al momento del pensionamento4.

In sintesi, le sentenze del 2025 confermano e rafforzano la giurisprudenza italiana sul nesso causale tra esposizione all’amianto e malattie come il mesotelioma, sottolineano la responsabilità penale dei dirigenti che non hanno adottato misure di prevenzione adeguate e chiariscono aspetti procedurali importanti relativi alla rivalutazione contributiva per esposizione amianto.

Operaio morto per l’amianto alla Syndial: risarcimento da …

 Operaio morto per l’amianto alla Syndial: risarcimento da 300mila euro alla vedova. L’uomo aveva fatto il saldatore per oltre 30 anni ..