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Amianto: Sentenze

Capraia, muore vittima dell’amianto in una centrale Enel: l’ente condannato a risarcire la famiglia con 180 mila euro

L’uomo per anni era stato un motorista presso la centrale elettrica di Capraia Isola, poi aveva contratto un tumore

Nel 2020 scopre di avere un mesotelioma pleurico ma è anche cardiopatico e nonostante le terapia oncologiche, dopo soli 12 mesi muore. Ora i familiari saranno risarciti dall’Enel. L’uomo per anni era stato un motorista presso la centrale elettrica di Capraia Isola, e subito dopo aver scoperto la malattia aveva richiesto all’Inail di essere inserito nelle liste dei lavoratori che hanno contratto un tumore sul luogo di lavoro per via della presenza di amianto.

L’ente gli riconosce lo status e lui avvia una causa di risarcimento danni al suo ex datore di lavoro, l’Enel, ma dopo le prime udienze sopraffatto dal male muore. Sua moglie e i suoi 4 figli riassumono la causa al Tribunale di Livorno che al termine del processo di primo grado riconosce il risarcimento perché l’Enel non avrebbe “protetto” i suoi dipendenti.

Non è la prima causa, infatti, che vede coinvolta la centrale elettrica di Capraia Isola. Nei giorni scorsi però la corte d’Appello di Firenze ha aumentato il totale del risarcimento che ammonta a circa 180 mila euro. Per i giudici di secondo grado «da sempre il lavoratore ha diritto ad essere protetto dalle polveri dell’ambiente di lavoro, a maggior ragione da quelle delle quali il datore conosceva, o doveva conoscere, esistenza e nocività», come nel caso di polveri e fibre di amianto. 

L’Inail quando l’uomo era ancora in vita, gli aveva già riconosciuto un indennizzo e la rendita prevista in questi casi di malattie professionali, ora i familiari avranno anche il risarcimento che finora non era arrivato perché l’Enel aveva impugnato la sentenza di primo grado. L’Enel, come molte altre aziende del settore, ha utilizzato l’amianto per le sue proprietà di resistenza al fuoco e al calore. Tuttavia, l’uso dell’amianto è stato progressivamente abbandonato proprio a causa dei gravi rischi per la salute legati all’inalazione delle fibre e delle polveri. 

L’operaio livornese aveva lavorato a contatto con l’amianto dal 1967 al 1969 e dal 1981 al 2003 prima di andare in pensione per poi ammalarsi e morire in meno di un anno. Per i giudici fiorentini l’amianto respirato a Capraia è la concausa, insieme alle sue patologie cardiache, del suo decesso. Queste le conclusioni processuali dopo testimonianze e perizie. I legali dei familiari dell’ex operaio dell’Enel avevano chiesto oltre 1 milione di euro di risarcimento.

«Asbestosi nota dal 1943»: risarcimento ai familiari del lavoratore vittima di amianto

Dal 1961 al 1996 un acquaiolo aveva riparato condotte idriche anche con tubi di eternit. Per la Corte d’Appello solo dal 91/92 il rischio amianto era fatto notorio

L’asbestosi è stata inserita tra le malattie mortali già dal 1943, il giudice non può dunque negare il risarcimento per la morte del lavoratore affermando una scarsa consapevolezza dei rischi da parte del datore di lavoro. La Cassazione accoglie così il ricorso della moglie e dei tre figli di un “acquaiolo”, che aveva lavorato per 35 anni, dal 1961 al 1996, con tubi di eternit, esposto alle fibre cancerogene dell’amianto senza protezioni. Nel 2012 è morto di carcinoma polmonare, dopo una diagnosi di asbestosi al 10%, poi all’85% e infine al 100%.

L’Inail, come il Ctu, avevano riconosciuto la natura professionale della malattia. Conclusioni avallate dal giudice del lavoro che aveva condannato il Consorzio di bonifica per il quale lavorava l’operaio a risarcire i familiari con circa 900mila euro.

Un verdetto completamente ribaltato in appello. La Corte territoriale, infatti, aveva escluso il diritto al risarcimento pur avendo accertato, in base alla perizia, «che il lavoratore era stato posto con elevata frequenza a contatto con serbatoi e tubazioni realizzati in cemento amianto su cui eseguiva interventi di manutenzione e riparazione; che non risultavano adottate adeguate misure di prevenzione nell’ambito della sorveglianza sanitaria del lavoratore medesimo». Neppure era servito il riconoscimento da parte dell’Inail dell’asbestosi – degenerata nel tempo in carcinoma con metastasi – come malattia di origine professionale.

Per i giudici di seconda istanza un ricorso proposto dagli eredi dopo oltre 20 anni dalla fine del rapporto di lavoro, rendeva difficile al datore provare il rispetto degli obblighi di prevenzione e sicurezza. A giocare contro il sì al risarcimento c’era, ancora una volta, il tempo: il lavoro era iniziato nel 1961 e si era concluso nel 1996. Non si potevano, dunque, applicare in via retroattiva la normativa di difesa dall’amianto entrata in vigore con i Dlgs 626/94, 81/2008, e 106/2009. Nè poteva essere valorizzata la precedente disciplina del Dpr 303/1956 che si riferiva solo alle polveri in generale. Secondo la Corte di appello, solo a partire dagli anni 1991/92 si poteva considerare un fatto notorio la correlazione causale fra l’esposizione a fibre d’amianto e il carcinoma polmonare.

Per finire il Ctu aveva basato le sue conclusioni sull’origine professionale delle patologie, riconosciute anche dall’Inail, senza individuare i parametri quantitativi dell’esposizione, «indispensabili al fine di valutare la dose cumulativa di fibre d’amianto espressa come fibre anno per centimetro cubico d’aria». Quindi l’accertamento non era attendibile. La Suprema corte prende, però, nettamente le distanze dalle tesi della Corte d’Appello, alla quale rinvia perchè riveda un giudizio, a tratti addirittura contrario alla legge.

Rischi noti all’epoca dei fatti

La decisione non è in linea con l’ordinamento innanzitutto nel negare un obbligo del datore di lavoro di rispettare la normativa sulle polveri (Dpr 303/56) e anche quella sulle fibre di amianto (Dlgs. n. 277/1991), pur essendo il rapporto di lavoro cessato nel 1996. Sbaglia ancora la Corte di merito, quando addossa ai familiari l’obbligo di dimostrare gli inadempimenti del Consorzio e quando sostiene che nel giudizio di responsabilità civile sia necessario accertare e dimostrare la presenza di una determinata esposizione quantitativa e qualitativa alle fibre di amianto. Non è comprensibile neppure il non aver tenuto conto del nesso causale tra la neoplasia e l’attività di lavoro, già accertato dall’Inail, ampiamente e logicamente riconosciuto dal Ctu sulla base di una serie di elementi – clinici, logici, di fatto, temporali, compreso un prelievo autoptico. Non una prova assoluta dunque, non necessaria, ma una «alta probabilità logica» del collegamento esposizione-malattia.

La Cassazione è costretta a ricordare che il lavoratore aveva contratto proprio l’asbestosi col 100% di invalidità, una malattia professionale tabellata che deriva dalla forte esposizione all’amianto e “sentinella” in quanto spia di una esposizione qualitativamente e quantitativamente molto sostenuta. Una patologia mortale, inserita nell’elenco delle malattie professionali tipizzate fin dal 1943.

Amianto : Sentenze

Operaio della Marina militare morto a 52 anni per amianto, risarcimento di 700mila euro ai familiari

L’uomo, originario di Catania, aveva prestato servizio per due anni (dal 1984 al 1986) presso il Maricentro di Taranto e a bordo della nave Intrepido, dove lavorava nei locali motori, circondato da fibre di amianto invisibili e letali

E’ diventata definitiva la sentenza del tribunale del Lavoro di Siracusa che ha riconosciuto Francesco Tomasi, meccanico navale della Marina Militare, come vittima del dovere, dopo la sua morte per un tumore polmonare causato dall’esposizione all’amianto. Aveva solo 52 anni. L’uomo, originario di Catania, aveva prestato servizio per due anni (dal 1984 al 1986) presso il Maricentro di Taranto e a bordo della nave Intrepido, dove lavorava nei locali motori, circondato da fibre di amianto invisibili e letali che, nonostante fosse ben nota da tempo la pericolosità, respirava quotidianamente, senza tutele, senza dispositivi di protezione individuale. 

Nel giugno del 2017, la diagnosi: tumore al polmone. In solo quattro mesi, nell’ottobre dello stesso anno, Tomasi muore lasciando la moglie e due figli. È stato l’inizio di una lunga e dolorosa battaglia legale, portata avanti dalla famiglia con l’assistenza dell’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto. Dopo il diniego iniziale da parte delle autorità competenti, il tribunale ha finalmente riconosciuto l’equiparazione a vittima del dovere, con il relativo diritto a ricevere i benefici previsti per i familiari. 

Il Ministero della Difesa è stato condannato a versare alla vedova e alla figlia circa 700 mila euro complessivi – tra speciale elargizione (300 mila euro) e vitalizi arretrati (400 mila euro) – oltre a un vitalizio mensile di circa 2 mila e 400 euro. “Questa sentenza restituisce un frammento di giustizia a una famiglia segnata per sempre dalla perdita e dal silenzio istituzionale”, spiega Bonanni. “Francesco Tomasi è uno dei tanti militari che hanno servito il Paese con onore, inconsapevolmente esposti a una sostanza letale – aggiunge -. L’amianto ha ucciso in modo lento e crudele, e ancora oggi le famiglie devono affrontare processi lunghi e dolorosi per vedere riconosciuti i propri diritti. È una doppia ingiustizia che non possiamo più tollerare”. 

Amianto : Sentenze

Esposizione all’amianto, riconosciuto danno terminale ma non danno parentale

La vicenda riguarda la responsabilità del Ministero della Difesa e del datore di lavoro per l’omessa prevenzione dell’esposizione all’amianto, che ha portato al decesso della vittima per mesotelioma. La Corte d’Appello di Lecce ha riconosciuto un risarcimento iure hereditatis per il danno terminale subito dal lavoratore esposto all’amianto, rigettando però la richiesta dei familiari per il danno parentale iure proprio. La Cassazione conferma la sentenza d’appello, ribadendo la corretta valutazione del nesso causale e l’inammissibilità del danno parentale in assenza dei presupposti.

L’esposizione all’amianto, la malattia e il decesso

La Corte d’appello di Lecce condanna in solido il datore di lavoro e il Ministero della Difesa a pagare, a titolo di danno non patrimoniale terminale iure hereditatis, l’importo di 185.918,00 oltre accessori. Ha dichiarato inoltre inammissibile la domanda di risarcimento danni iure proprio formulata dagli appellanti a titolo di danno parentale.

Secondo la Corte d’appello, la responsabilità del Ministero della Difesa sussiste ai sensi dell’articolo 2051 c.c., poiché la patologia contratta dal lavoratore – che ne ha causato successivamente il decesso – è risultata riconducibile all’esposizione all’amianto. Tale esposizione è avvenuta durante l’esecuzione di attività oggetto di appalto, in ambienti contaminati costituiti da navi, ponti di volo e dall’intera area dell’arsenale, tutti beni di proprietà del Ministero.

Quest’ultimo per andare esente della responsabilità ex art. 2051 c.c., avrebbe dovuto dimostrare di aver scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di aver esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull’attività dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno potesse ritenersi causato da una condotta dell’appaltatore non prevedibile e/o evitabile quindi in sostanza riconducibile all’ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del terzo.

Oltre a ciò la documentazione allegata dal Ministero evidenziava la piena consapevolezza da parte della Marina militare del rischio per la salute costituita dall’attività di coibentazione e rimozione dell’amianto oggetto di appalto.

CTU: il mesotelioma cagionato dall’esposizione all’amianto

ICTU medico-legale ha confermato che il decesso della vittima per mesotelioma maligno era stato cagionato dall’esposizione all’amianto.

Per quanto concerne la liquidazione del danno, i Giudici di appello hanno il danno biologico secondo le indicazioni tabellari fornite dal CTU osservando che “la particolarità del caso in esame – come ben evidenziato il CTU nella risposta ai quesiti formulati dalla Corte, che, erroneamente, includevano anche quello relativo al danno biologico per invalidità permanente che nella specie non è ipotizzabile stante l’exitus del lavoratore – è che alla malattia contratta è sopraggiunta la morte”.

I Giudici di appello, in sostanza, hanno seguito il consolidato orientamento secondo cui sopraggiunta la morte, il danno biologico doveva essere correttamente liquidato secondo il criterio della invalidità temporanea sub specie di danno terminale – da trasmettere agli eredi – nelle varie componenti di danno biologico e di danno morale (o catastrofale), considerata la durata della grave malattia dalla data della diagnosi fino al decesso. Per i 2 anni e 309 giorni di sofferenza, intercorsi tra la diagnosi della malattia ed il decesso, i giudici hanno liquidato l’importo pari a 185.918,00 secondo il criterio unitario ed i valori a scalare propri della tabella di Milano sul danno terminale.

L’intervento della Cassazione

Secondo la società datrice di lavoro della vittima la Corte di appello avrebbe errato nel non adeguatamente valutare il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro intercorso con il lavoratore in relazione alla patologia contratta ed alla luce delle considerazioni cliniche esposte dal CTU nell’elaborato peritale.

Quanto censurato è infondato. La Corte di appello ha innanzitutto valutato il reale atteggiarsi del rapporto di lavoro della vittima tanto che sul punto ha rinnovato l’esame dei testimoni per verificare in quale ambiente e con quali modalità egli avesse in concreto lavorato. Quindi non ha omesso di valutare alcun fatto decisivo, né ha contraddetto le tesi e le conclusioni sostenute dalla CTU, ma le ha valutate integrandole logicamente alla luce della istruttoria testimoniale espletata e della corretta applicazione delle norme giuridiche

La Corte ha infatti affermato, sulla scorta delle rinnovate prove testimoniali, che vi fu una esposizione all’amianto- non solo nel periodo di lavoro precedentemente svolto alle dipendenze di una cooperativa, ma anche nel periodo di lavoro successivo svolto presso il datore coinvolto nel giudizio in parola. Posto che anche questa impresa effettuava lavori di decoibentazione dei rivestimenti di amianto dalle navi senza osservare le prescrizioni di legge, mentre il lavoratore era adibito a lavori di pulizia (pulizia di sentine, cassa olio e casse acqua) a bordo nave; per cui egli rimaneva esposto all’azione nociva delle fibre pericolose sprigionatesi nello stesso ambiente.

La esposizione al fattore nocivo e pericoloso (primo elemento del nesso di causa) è dimostrato secondo la Corte dallo svolgimento del rapporto dal 1998 al 2006 in queste condizioni (mentre dal 2006 al 2010 la vittima è stato posta in cassa integrazione).

Le prove testimoniali

Si ritiene, pertanto, che legittimamente la Corte, dovendo “sciogliere il dubbio” sul punto ha chiesto chiarimenti ai testimoni, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva delimitato la esposizione solo al primo periodo di lavoro svolto alle dipendenze della Cooperativa.

Ciò ha condotto a ritenere che l’esposizione a rischio, che il Consulente ha riferito essersi consumata solo nel primo periodo, doveva dirsi avvenuta anche nel secondo periodo di lavoro svolto alle dipendenze della datrice convenuta sul presupposto di fatto accertato che il lavoro effettuato dalla vittima non era diverso nel primo e nel secondo periodo.

Per completezza si aggiunge che il CTU ha evidentemente formulato una diagnosi di derivazione causale in termini generali, riferendola all’esposizione complessiva subita dal lavoratore, senza distinguere tra il primo ed il secondo periodo di occupazione. Inoltre la (importante) complessa questione relativa a quale tra le esposizioni subite dal lavoratore sia stata effettivamente influente sullo sviluppo del tumore non è invece affrontata nei motivi di ricorso.

La sentenza di appello risulta quindi del tutto conforme al diritto e si sottrae alle infondate censure sollevate.

Avv. Emanuela Foligno

Amianto : Sentenze

Malato per l’amianto su lavoro”, Ministero della Difesa condannato. La sentenza della Corte dei Conti

Al lavoratore spezzino è stato concesso un compenso pari a quattro annualità di stipendio. La sua storia professionale richiama quella di moltissimi dipendenti dell’Arsenale

Dopo una lunga battaglia giudiziaria durata quattro anni, la Corte di Appello di Genova ha confermato la condanna del Ministero della Difesa, imponendo il pagamento di oltre 200mila euro di risarcimento alla famiglia di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico. La malattia, che lo ha portato alla morte nel 2022, è stata causata dall’esposizione all’amianto presso l’Arsenale della Marina Militare della Spezia, dove l’uomo ha lavorato per 38 anni.

La sentenza di secondo grado rigetta l’appello presentato dal Ministero contro la precedente decisione del Tribunale di La Spezia. La Corte ha ritenuto pienamente fondate le ragioni della vedova e dei figli, rappresentati dall’avvocato Cosimo Lovelli, confermando integralmente il risarcimento stabilito in primo grado.

Il lavoratore, impiegato in diverse mansioni all’interno dell’Arsenale, aveva iniziato a manifestare gravi problemi di salute dopo il pensionamento. I sintomi si sono aggravati fino alla diagnosi di mesotelioma, una patologia gravemente invalidante e strettamente correlata all’inalazione di fibre di amianto. La morte è sopraggiunta nel 2022, chiudendo un calvario clinico e personale durato mesi.

La causa è stata sostenuta dalla FNP-CISL di La Spezia, dove il pensionato si era rivolto in cerca di tutela. Il sindacato, attraverso l’impegno del responsabile Antonio Montani , ha seguito il caso fino alla definitiva vittoria in Appello, esprimendo grande soddisfazione per il riconoscimento dei diritti dei familiari.

Dipendente del Comune di Castelbuono morì per un cancro causato dall’amianto, l’Inail dovrà risarcire i familiari

Il giudice del lavoro ha riconosciuto l’origine professionale della malattia contratta da Giuseppe Failla. Alla vedova, sarà ora corrisposta una rendita mensile, oltre agli arretrati e alle maggiorazioni del Fondo vittime amianto, per un totale di circa 150.000 euro

Il tribunale del lavoro di Termini Imerese ha condannato l’Inail al risarcimento previdenziale in favore della vedova di Giuseppe Failla, storico dipendente del Comune di Castelbuono, paese in cui era nato, scomparso a 64 anni per mesotelioma pleurico, un cancro devastante causato dall’esposizione all’amianto. La sentenza ha riconosciuto l’origine professionale della malattia contratta da Failla. Alla vedova, sarà ora corrisposta una rendita mensile, oltre agli arretrati e alle maggiorazioni del Fondo vittime amianto, per un totale di circa 150.000 euro, secondo stime dell’Osservatorio nazionale amianto.

Giuseppe Failla ha lavorato per 33 anni al Comune di Castelbuono, prima nell’ambito ambientale, poi nei settori manutentivi e amministrativi. Per oltre vent’anni si è occupato di salvaguardia dell’ambiente (acqua, suolo, atmosfera), con gestione del servizio di raccolta e discarica dei rifiuti solidi urbani, tra cui quella di Santa Lucia e quella di Cassanisa, operando a stretto contatto con rifiuti pericolosi, spesso contenenti amianto, in siti contaminati e magazzini comunali fatiscenti, come l’ex cineteatro“Le Fontanelle dove le coperture in eternit erano in evidente stato di degrado, svolgendo regolarmente sopralluoghi, delimitazioni di aree e classificazioni dei materiali pericolosi. Più volte fu nominato responsabile per la gestione di eternit abbandonato, con esposizioni documentate e dirette a polveri di amianto, senza adeguate tutele.

Amianto : Sentenze

Cassazione Penale, Sez. 4, 20 marzo 2025, n. 11168 ha riconosciuto il nesso causale tra l’esposizione all’amianto e il mesotelioma pleurico, evidenziando che ogni esposizione contribuisce in modo concorrente al rischio e che il rischio è proporzionale a tempo e intensità di esposizione. Tuttavia, la Corte di Appello di Palermo aveva in parte ribaltato la sentenza in primo grado, escludendo la responsabilità penale di alcuni imputati per il fatto che la loro posizione di garanzia era successiva al 1981, anno in cui il rischio di esposizione era stato superato solo fino a quel momento. La Cassazione ha comunque sottolineato che la prolungata esposizione, anche fino agli anni ’80 e oltre, ha un effetto causale certo nella genesi del mesotelioma, confermando la responsabilità dei dirigenti che non hanno adottato misure adeguate di prevenzione e informazione.

Cassazione Penale, Sez. 4, 17 aprile 2025, n. 15220 ha ulteriormente precisato la responsabilità del management aziendale, in particolare di A.A., per la gestione negligente del rischio amianto negli stabilimenti Eternit dal 1954 al 1985, sottolineando come la mancata adozione di misure di risanamento e la disinformazione ai lavoratori costituiscano profili di colpa rilevanti ai fini penali

In tema di causalità individuale del mesotelioma da amianto, una sentenza della Cassazione del 15 aprile 2025 ha rigettato la teoria dell’“effetto acceleratore” come base scientifica sufficiente per dimostrare la causalità individuale, ma ha confermato la validità del criterio dell’esclusione di altre cause alternative di esposizione. In pratica, se si dimostra che la persona ha lavorato esclusivamente in un ambiente con amianto senza altre esposizioni significative, si può affermare con ragionevole certezza il nesso causale tra esposizione e malattia2.

Infine, nel 2025 la Cassazione ha anche introdotto un principio importante in materia di rivalutazione contributiva per esposizione all’amianto, stabilendo che il termine di prescrizione è legato alla conoscenza dell’esposizione e non al momento del pensionamento4.

In sintesi, le sentenze del 2025 confermano e rafforzano la giurisprudenza italiana sul nesso causale tra esposizione all’amianto e malattie come il mesotelioma, sottolineano la responsabilità penale dei dirigenti che non hanno adottato misure di prevenzione adeguate e chiariscono aspetti procedurali importanti relativi alla rivalutazione contributiva per esposizione amianto.

Operaio morto per l’amianto alla Syndial: risarcimento da …

 Operaio morto per l’amianto alla Syndial: risarcimento da 300mila euro alla vedova. L’uomo aveva fatto il saldatore per oltre 30 anni ..

Amianto : Sentenze

Morì a causa dell’amianto. Condannato il ministero

Il decesso del pensionato dell’Arsenale era stato causato da mesotelioma. La Corte di Appello di Genova ha confermato la sentenza del Tribunale spezzino.

Dopo 38 anni di lavoro in Arsenale una volta arrivato alla traguardo della pensione è subentrata la terribile malattia che dopo lunghe sofferenze lo ha portato alla morte, arrivata nel 2022. La causa del decesso era stata l’insorgere di un mesotelioma pleurico provocato dal contatto con l’amianto sul luogo di servizio. A quasi quattro anni dalla tragedia la famiglia del lavoratore spezzino si è vista riconoscere il risarcimento previsto dal Tribunale ma la battaglia non è stata affatto semplice. Sulla somma da versare infatti si era aperto il braccio di ferro al quale ha messo la parola fine la Corte di appello di Genova. Il giudice ha infatti rigettato l’appello che il ministero della difesa aveva presentato contro la sentenza emessa dal Tribunale di La Spezia che lo condannava al versamento di una cifra superiore ai 200 mila euro a titolo di risarcimento ai famigliari, ovvero alla vedova e ai figli del lavoratore.

L’uomo era stato a lungo dipendente dell’Arsenale della Marina Militare della Spezia svolgendo mansioni diverse. Dopo 38 anni di lavoro l’uomo ha iniziato a soffrire di problemi di salute che sono sfociati nella constatazione clinica del mesotelioma che lo ha poi portato al decesso nonostante le cure e terapie alle quali si era sottoposto. Dopo il dolore la vicenda ha lasciato spazio all’azione legale finendo nelle aule del tribunale. Dopo una lunga battaglia processuale la sezione lavoro della Corte di Appello di Genova ha confermato la sentenza di risarcimento a favore della vedova e dei figli dell’uomo scomparso. Confermando così la sentenza di primo grado sono state accolte le ragioni della difesa dei familiari affidate all’avvocato Cosimo Lovelli e respinto le richieste dell’avvocatura dello Stato che per conto del Ministero della Difesa aveva chiesto la riduzione dei risarcimenti. La somma di 200 mila euro era stata ritenuta eccessiva e per questo era stato presentato il ricorso. Ma la Corte di appello di Genova ha deciso che il risarcimento dovrà essere superiore alla cifra di 200 mila euro. Della vicenda si era occupato molto da vicino il sindacato Fnp Cis della Spezia l al quale il pensionato di era rivolto. Il responsabile Antonio Montani, che aveva promosso l’azione legale, ha voluto così esprimere la soddisfazione per l’esito della vicenda.

Militare triestino ucciso dall’amianto, il Tar condanna il ministero della difesa

Il tribunale amministrativo regionale del Fvg ha condannato il ministero a un risarcimento di 600mila euro alla famiglia del militare deceduto a 63 anni per esposizione in Marina

RIESTE – Il Tribunale amministrativo regionale del Friuli Venezia Giulia ha condannato il ministero della Difesa al pagamento di 600 mila euro ai familiari del primo maresciallo triestino luogotenente della Marina Militare, stroncato a soli 63 anni da un mesotelioma pleurico causato dall’esposizione prolungata all’amianto durante il servizio, a titolo di risarcimento per i danni subiti. Il sottufficiale, residente a Trieste, ha servito per 36 anni nelle file della Marina, tra basi a terra e unità navali di vecchia generazione, dal 1966 al 2004. Un servizio fedele, prestato in ambienti contaminati da amianto e altri agenti cancerogeni, spesso senza le adeguate misure di protezione, formazione o sorveglianza sanitaria. La diagnosi di mesotelioma arrivò nel 2008, cinque anni dopo il congedo. Nel 2013, fu riconosciuta la causa di servizio e lo status di “vittima del dovere”, con conseguenti benefici previdenziali a favore della vedova. Ma il percorso legale non si è fermato lì. Con l’assistenza dell’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto, la famiglia ha chiesto giustizia piena, portando il caso davanti al Tar che ha stabilito la responsabilità del ministero della Difesa per l’omessa protezione del militare, condannando l’amministrazione a risarcire il danno “iure hereditario”, ovvero trasmesso agli eredi.

Ogr, vittime dell’amianto: è morto Walter Tattini. Si era ammalato 40 anni dopo. “Un fratello”

Walter Tattini (a sinistra) premiato dagli ex colleghi per le sue vignette 

Aveva 76 anni, è deceduto a causa del mesotelioma pleurico. La moglie lo accudiva: “Si sentiva tradito da chi sapeva e non ha fatto nulla”. Il dolore degli ex operai delle Officine: “Per i suoi modi gentili era il nostro Principe”

Di lavoro si può morire anche 20 anni dopo essere andati in pensione. Del resto le passioni ti fregano. Lo sapeva bene Walter Tattini, morto qualche giorno fa di mesotelioma pleurico. Il male dell’amianto. Lui con la polvere killer ci aveva lavorato per anni. Ne aveva appena 24 quando dopo un «diplomino» – come lo chiamava lui – da elettromeccanico e un’esperienza da manutentore di ascensori, era entrato alle Officine grandi riparazioni di via Casarini a Bologna. Una città nella città in cui si coibentavano e scoibentavano le carrozze dei treni rivestite di amianto. Per Walter, allora poco più di un “cinno”, come si dice a Bologna, quel lavoro era una specie di sogno. «Era come giocare col trenino, ma a grandezza naturale. Una meraviglia. Ho sempre avuto la passione del treno. E mi ha fregato», raccontava a luglio del 2024 a Lettera43 pochi mesi dopo aver scoperto di essere malato. E pensare che erano trascorsi 20 anni da quando era andato in pensione, nel 2004. Dopo aver visto morire decine di colleghi, uno dopo l’altro, pensava di averla scampata. E invece no. Il male è arrivato e se lo è portato via in un anno.

Secondo gli esperti il picco di decessi sarà toccato nel 2025

Gli esperti sostengono che il picco di questa strage silenziosa che ha già fatto 370 vittime accertate, senza contare Walter, potrebbe essere toccato proprio nel 2025. Era il 1986 quando l’Istituto oncologico di Bologna guidato dal professor Cesare Maltoni denunciava sei casi in città e uno nel Riminese. E ancora oggi la conta drammatica continua. Morti sul lavoro, ma in differita. «Vittime sacrificali», denuncia da sempre Salvatore Fais, ex sindacalista che porta avanti la battaglia per avere giustizia e per la memoria. Anche se il numero reale dei morti da esposizione all’asbesto tra i lavoratori delle Ogr non si conoscerà mai. Molti venivano da altre parti d’Italia e se n’è persa traccia.

Amianto : Sentenze

Eternit bis, Schmidheiny condannato a 9 anni per i morti da amianto

La Corte d’appello di Torino ha riconosciuto il magnate svizzero responsabile dell’omicidio colposo di 92 persone morte a causa dell’esposizione dall’amianto lavorato nello stabilimento di Casale Monferrato. “La conferma che sapeva e non ha tutelato”, esultano i familiari

Giovedì 17 aprile, la Corte d’appello di Torino ha condannato a nove anni e sei mesi Stephen Schmidheiny, proprietario della multinazionale Eternit, per l’omicidio colposo di 92 persone morte a causa dell’esposizione all’amianto lavorato nello stabilimento di Casale Monferrato (Alessandria). L’imprenditore svizzero è stato invece assolto per altri 28 casi, mentre 27 sono andati in prescrizione. Stabiliti anche i risarcimenti: il più elevato, 5 milioni di euro, al comune di Casale. La pena è più lieve rispetto ai dodici anni comminati in primo grado a Novara nel giugno 2023, ma comunque “un buon risultato”, ha commentato Bruno Pesce, volto storico della lotta all’amianto. 

Durante la lettura della sentenza, durata sei minuti, la voce della giudice Cristina Domaneschi è risuonata nell’aula 6 del tribunale di Torino in un silenzio assoluto, malgrado la presenza di un pubblico ricco di familiari delle vittime, associazioni e giornalisti. “Siamo soddisfatti di questa condanna perché conferma il nostro impianto accusatorio: Schmidheiny era a conoscenza del rischio sanitario. Ora aspettiamo di leggere la sentenza”, ha dichiarato la procuratrice Sara Panelli. Anche Pesce, tra i fondatori dell’Associazione dei familiari delle vittime di amianto (Afeva), si è detto soddisfatto: “Nove anni e sei mesi sono un bel risultato, anche se abbiamo davanti ancora la Cassazione che finora non ha dato buoni esiti. Abbiamo ottenuto un’ulteriore conferma che chi era a capo di Eternit sapeva e non ha tutelato”. Ma la soddisfazione si spegne sui volti dei familiari delle 27 vittime per cui non ci sarà giustizia né risarcimento perché è passato troppo tempo dalla morte. 

La pronuncia è arrivata a metà pomeriggio. In mattinata, lo storico difensore della famiglia Schmidheiny Guido Carlo Alleva aveva insistito sull’impossibilità del suo cliente, a capo della multinazionale dal 1976 al 1986, di aver colpa per le morti avvenute per mesotelioma tra i suoi operai e gli abitanti di Casale Monferrato: “Ancora oggi la scienza non può datare con certezza il momento preciso in cui insorge la malattia e noi in un’aula penale dobbiamo giudicare con certezza”. Secca la replica della pm Panelli: “Noi ci basiamo sulla scienza, non su opinioni o suggestioni. La scienza ha dimostrato l’accelerazione della malattia a causa dell’esposizione da amianto. Questo è un fatto e la giurisprudenza si basa sui fatti”. 

Dopo le prescrizioni e delle assoluzioni, le cui motivazioni verranno pubblicate entro novanta giorni, sono state elencate le istituzioni e associazioni che hanno ottenuto risarcimenti come parti civili al processo. Il comune di Casale Monferrato, da sempre in prima linea nei processi finora celebrati, ha ottenuto il massimo con 5 milioni, anche se molti meno dei 50 richiesti dall’accusa all’inizio del procedimento nel 2020. 500mila alla Presidenza del consiglio, 170mila all’Afeva.

Eternit, la vicenda giudiziaria

Secondo i dati raccolti dall’Afeva, dal 1990 al 2018, soltanto a Casale sono morte di mesotelioma almeno 1.254 persone, tra ex lavoratori e cittadini, ma il numero sale a 3mila se si considerano i decessi registrati nelle altre città italiane in cui erano presenti stabilimenti Eternit, oggi tutti chiusi: Cavagnolo (Torino), Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). Il primo processo si è aperto a Torino nel 2009 con la richiesta di 2889 risarcimenti per altrettante vittime. Nel 2012 Schmidheiny e il socio belga De Cartier sono stati condannati a 16 anni. L’anno successivo, la Corte d’appello ha aumentato la pena di due anni per lo svizzero, mentre De Cartier era nel frattempo deceduto. Nel novembre del 2014, però, la Cassazione ha annullato le due sentenze riconoscendo la sussistenza del reato ma dichiarandone la prescrizione.

Il processo Eternit bis si è aperto nel 2015 sempre a Torino, dove il gip Federica Bompieri ha derubricato il reato da omicidio volontario a colposo e spacchettato il processo in quattro tronconi, inviando gli atti alle procure dei territori dove si trovavano gli stabilimenti. Per le morti di Casale la procura competente è quindi quella di Vercelli, ma non essendovi in tribunale la Corte d’assise il processo di primo grado si è svolto a Novara. Il procedimento relativo allo stabilimento di Rubiera è stato archiviato nel 2021, quello per Bagnoli a Napoli ha visto la condanna di Schmidheiny a tre anni e mezzo, confermata in appello, mentre per il filone di Cavagnolo il mese scorso la Cassazione ha annullato di nuovo la condanna rinviando il caso a un’altra sezione della Corte d’appello di Torino.

Amianto, ex operaio muore di tumore dopo anni di lavoro. Alla famiglia 1,5 milioni: «Non conosceva i rischi, poi quel sangue…»

È più viva che mai la speranza per tutte le vittime che sono state esposte all’amianto o hanno contratto patologie correlate all’asbesto dopo la sentenza emanata sotto l’ombra del Vesuvio. L’Autorità Portuale di Napoli (oggi Autorità del Sistema del mar Tirreno Centrale), dopo un giudizio incardinato al Tribunale di Napoli (sezione Lavoro) e durato circa quattro anni, è stata condannata ad un risarcimento pari ad 1,5 milioni di euro nei confronti degli eredi di G.C., ex operaio deceduto per adenocarcinoma polmonare in seguito ad esposizione ad amianto. L’uomo è morto a soli 59 anni, a maggio del 2015.

L’inizio di un incubo

La storia lavorativa del sig. G.C. inizia nel 1974 e finisce nel 1990, dove lo stesso fu assunto alle dipendenze dell’ Autorità Portuale. L’uomo si occupava della manutenzione di gru elettriche e di altri mezzi semoventi che trasportavano sacchi ed imballaggi all’interno del Porto di Napoli. Ciò che mette i brividi è che il gruista, durante l’intero rapporto lavorativo, fu esposto a sua insaputa all’amianto ed altri agenti dannosi alla salute.

Al di là del risarcimento di 1,5 milioni di euro che tiene conto di tutti i danni sofferti dal sig. G.C in vita e quelli patiti dai suoi eredi, vi è la dimostrazione che con il passare degli anni stanno emergendo alcune malattie, prima sottovalutate, quali ad esempio il tumore della laringe o dell’esofago, di cui si escludeva in passato la correlazione con l’esposizione alle fibre di amianto, e che finalmente stanno trovando riconoscimento e tutela legale nelle aule giudiziarie.

Da sottolineare che il giudizio promosso dal team legale dello studio Imilex di Nola ha dimostrato che fino agli anni novanta vi era una movimentazione di sacchi ed imballaggi contenenti la sostanza killer. Inoltre, anche le cabine di guida ed i sistemi frenanti dei mezzi condotti dall’ex operaio erano interamente rivestiti da pannelli di amianto.

Amianto : Sentenze

Nessun nesso tra amianto e tumore al colon retto, la Cassazione conferma

La Corte d’appello di Bologna, decidendo in sede di rinvio da Cass. n. 10273 del 2018, ha rigettato la domanda del lavoratore volta ad accertare l’etiologia professionale della patologia tumorale di cui è portatore e a conseguire dall’INAIL le consequenziali prestazioni di legge. Secondo i giudici non c’è nesso tra amianto e tumore al colon retto e la Cassazione conferma (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, ordinanza 11 aprile 2025, n. 9468).

“Il dissidio tra due CTU che siano state disposte nei gradi di merito può dar luogo al vizio di omesso esame di un fatto decisivo solo quando quella recepita dalla sentenza impugnata ometta l’esame di un fatto storico avente portata astrattamente decisiva, ossia tale che, se considerato, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione”.

Il caso

Il soccombente si rivolge nuovamente alla Corte di Cassazione censurando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere i Giudici di merito recepito le conclusioni della CTU disposta in sede di rinvio senza dare adeguata e specifica spiegazione della preferenza accordatale rispetto a quella effettuata in prime cure e senza dar conto delle osservazioni critiche rivoltele dal CTP.

Nello specifico, il Consulente nominato in sede di rinvio, sarebbe giunto alle proprie conclusioni in contrasto con le risultanze istruttorie, e avrebbe formulato ipotesi erronee circa il periodo complessivo di esposizione all’amianto, assumendo che l’odierno ricorrente, pur avendo lavorato dall’1/2/1960 al 30/4/1987 per la Compagnia Portuale di Ravenna, sarebbe stato meno esposto alla dispersione delle fibre d’amianto a partire dal 1976, allorché aveva assunto la carica di consigliere e poi, dal 1979, di vice console e quindi console della Compagnia Portuale.

Nessun nesso tra amianto e tumore al colon retto

Ebbene, i Giudici di merito, dopo aver dato atto che la neoplasia al retto da cui è affetto il lavoratore non rientra tra le malattie tabellate, hanno recepito le conclusioni della CTU disposta in sede di rinvio, secondo cui “non esiste al momento alcuna evidenza scientifica che attesti l’esistenza di un rapporto causa-effetto tra esposizione ad amianto e tumore al colon retto, che rappresenta invece la seconda o terza delle patologie per incidenza nella popolazione maschile italiana di età anagrafica corrispondente a quella dell’odierno ricorrente”, concludendo pertanto, anche alla luce delle osservazioni formulate dal CTU in replica alle critiche della CTP, per “l’insussistenza di un grado di probabilità sufficiente per affermare una rapporto anche concausale tra la malattia e la sua pregressa attività lavorativa”.
Che la più recente giurisprudenza si è consolidata nel senso che “il dissidio tra due CTU che siano state disposte nei gradi di merito può dar luogo al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo solo quando quella recepita dalla sentenza impugnata ometta l’esame di un fatto storico avente portata astrattamente decisiva, ossia tale che, se considerato, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione (cfr., tra le più recenti, Cass. nn. 8429 del 2021, 31511 del 2022, 18886 del 2023 e 7716 del 2024).”

Le doglianze sono inammissibili.

L’elenco delle malattie oggetto di denuncia obbligatoria non amplia il catalogo delle patologie tabellate

Le stesse si agganciano alla affermazione della CTU che, concernendo la durata dell’esposizione all’amianto, sono del tutto irrilevanti alla luce della conclusione secondo cui, alla stregua delle attuali conoscenze scientifiche, perfino un’elevata esposizione giornaliera e cumulativa per molti anni all’amianto è considerata come concausa soltanto “possibile” dell’insorgenza di un carcinoma al colon retto.

Non è rilevante, secondo i Giudici, il fatto che il D.M. 10/6/2014, nell’aggiornare l’elenco delle malattie per cui è obbligatoria la denuncia abbia incluso il tumore al colon retto tra le patologie a “limitata probabilità” di derivazione causale dall’esposizione ad amianto, essendo consolidato il principio di diritto secondo cui l’elenco delle malattie oggetto di denuncia obbligatoria non amplia il catalogo delle patologie tabellate, con la conseguenza che gli elenchi succedutisi nel tempo in relazione alla citata disposizione assumono valore probatorio vario, in relazione all’intensità probabilistica del nesso eziologico accertato dalla commissione scientifica, ma sempre nel quadro di una concreta verifica probatoria il cui onere incombe sul lavoratore.

Ciò risponde anche al principio che vada esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, potendo quest’ultima essere ravvisata solo in presenza di un rilevante grado di probabilità.

Per tutte le ragioni anzidette il ricorso viene rigettato con conferma del secondo grado.

Morì a causa dell’esposizione all’amianto, 400mila euro alla vedova di un radiotelegrafista pugliese

TRANI – Il ministero della Difesa dovrà risarcire per una somma pari a 400mila euro la vedova di un radiotelegrafista pugliese morto il 10 febbraio 2020 a causa di un mesotelioma pleurico causato dall’esposizione all’amianto e riconosciuto, dalla sentenza del tribunale di Trani diventata definitiva, vittima del dovere.

Il Tribunale ha riconosciuto il nesso causale tra la malattia e l’esposizione a bordo, e ha disposto «l’erogazione dei benefici spettanti per legge», alla vedova. Alla vedova dovrà essere corrisposta una speciale elargizione di circa 300.000 euro, oltre a ratei arretrati per circa 100.000 euro e un vitalizio mensile di circa 2.400 euro. «A quasi cinque anni dalla sua morte, il militare ha ottenuto giustizia – dichiara Ezio Bonanni, legale della famiglia della vittima e presidente dell’Osservatorio nazionale amianto – Con la sentenza definitiva, possiamo procedere con ulteriori azioni per il risarcimento integrale dei danni». «Il nostro impegno prosegue a tutela di tutte le vittime dell’amianto e delle vittime del dovere», conclude. 

Amianto : Sentenze

Benefici contributivi amianto, la prescrizione parte dalla conoscenza dell’esposizione

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 8630 depositata oggi, accogliendo il ricorso del coniuge superstite

Il termine di prescrizione decennale per chiedere di poter godere dei benefici contributivi per l’esposizione all’amianto da parte del lavoratore (o da chi ne ha diritto) iniziano a decorrere dalla conoscenza del fatto e non dalla data di pensionamento che nulla prova. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 8630 depositata oggi, accogliendo il ricorso del coniuge superstite che aveva presentato la domanda nel 2016, otto anni dopo la morte del marito (avvenuta nel 2008).

La Corte di appello di Potenza, invece, aveva fissato il dies a quo dalla data del pensionamento del lavoratore quale «data ultima a partire dalla quale il diritto può essere fatto valere». Decretando, in riforma della decisione di primo grado, la tardività della domanda presentata all’Inps nel 2016 a fronte del collocamento in quiescenza nell’agosto del 2003.

Per la Sezione lavoro il ragionamento del giudice di secondo grado è errato in quanto prescinde “dall’effettivo accertamento che, a quella data, l’interessato avesse consapevolezza dell’esposizione ad amianto”. Secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema corte, infatti, il diritto alla rivalutazione contributiva (articolo 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992) è assoggettato a prescrizione decennale, «con decorrenza dal momento in cui l’interessato abbia avuto conoscenza o potesse avere conoscenza del fatto di essere stato esposto oltre soglia ad amianto, durante le proprie lavorazioni» (n. 10225/2024).

E allora, per come la fattispecie è stata “tipizzata” dalla legge, prosegue la decisione, “la consapevolezza o la conoscibilità sono indispensabili al fine di individuare il termine di decorrenza della prescrizione del diritto vantato e devono essere positivamente e puntualmente accertate”. Ha quindi errato la Corte di merito “nell’arrestarsi al vaglio della data del pensionamento, di per sé sprovvista di valenza probante”; in tal modo omettendo “la rigorosa verifica” delle effettiva conoscenza del fatto da parte del richiedente.

La Corte ha invece bocciato il motivo di ricorso con cui la vedova affermava la imprescrittibilità del diritto, ricordando la prescrittibilità discende dalle caratteristiche del beneficio della rivalutazione contributiva della posizione assicurativa, che si atteggia «come un diritto autonomo rispetto al diritto a pensione» e «sorge in conseguenza del “fatto” della esposizione ad amianto e determina una maggiorazione pensionistica avente natura in un certo qual modo risarcitoria».

Anche per lavoratori già pensionati alla data di entrata in vigore del Dl n. 269 del 2003, va dunque ribadita la prescrittibilità del diritto, considerato che «ciò che si fa valere non è il diritto al ricalcolo della prestazione pensionistica […] bensì il diritto a un beneficio che, seppure previsto dalla legge “ai fini pensionistici” e ad essi, quindi, strumentale, è dotato di una sua specifica individualità e autonomia, operando sulla contribuzione ed essendo ancorato a presupposti propri e distinti da quelli in presenza dei quali era sorto (o sarebbe sorto) […] il diritto al trattamento pensionistico». Posizione ribadita dalla Suprema corte anche di recente (n. 7446/2024).

Amianto : Sentenze

Sentenza storica a Napoli. Riconosciuta correlazione tra adenocarcinoma e esposizione all’amianto

Napoli, 26 marzo 2025 – Ieri i giudici della sezione Lavoro del Tribunale di Napoli hanno accolto il ricorso per la morte di un ex dipendente dell’Autorità Portuale partenopea che morì per un adenocarcinoma polmonare per la prolungata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro. Un milione e mezzo il risarcimento pattuito per gli eredi dell’operaio.
I legali dello studio Imilex Lorenzo Irace, Giuseppe Manganiello e Giancarlo Itri hanno definito la sentenza “storica” in quanto “segna una svolta epocale nella tutela degli ex esposti all’amianto”. Il fatto risale nel periodo compreso tra il 1974 ed il 1990 quando il lavoratore aveva svolto mansioni di gruista all’interno del Porto di Napoli. Il giudice del lavoro ha confermato che sino alla fine del suo rapporto di lavoro era consuetudine trasportare imballaggi contenenti la sostanza killer. 
L’adenocarcinoma polmonare è una patologia che, al contrario del mesotelioma, non è direttamente riconducibile all’amianto. La sentenza dunque rappresenta per la primissima volta una correlazione tra chi ha contratto questa patologia e l’esposizione alle fibre di asbesto.

  1. Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 febbraio 2025, n. 4084:
    • Questa sentenza ha confermato la responsabilità del datore di lavoro (ABB Spa) per la malattia contratta da un lavoratore a causa dell’esposizione professionale all’amianto. Il lavoratore era stato esposto alle fibre di amianto per oltre trent’anni senza alcuna misura di protezione. La Corte ha riconosciuto la responsabilità civile del datore di lavoro per non aver adottato le necessarie cautele per prevenire il danno
    • Cassazione Civile, Sez. Lav., 26 marzo 2025, n. 8064:
    • La Cassazione ha confermato la condanna di Poste Italiane per l’esposizione all’amianto dei suoi dipendenti. Questa sentenza ribadisce l’importanza delle misure di sicurezza nei luoghi di lavoro per prevenire danni alla salute dei lavoratori
    • Corte d’Appello di Ancona, Sentenza n. 98/2025 del 13 marzo 2025:
    • Questa sentenza si riferisce a un caso in cui significative quantità di polveri di amianto erano state rilasciate nell’ambiente di lavoro, esponendo i lavoratori a rischi per la salute
    • IV Sez. Penale della Suprema Corte, sentenza n. 11168/2025:
    • La sentenza affronta il tema del nesso causale tra l’esposizione all’amianto e le malattie correlate, un argomento ampiamente dibattuto
    • Corte di Cassazione, sentenza del 5 novembre 2024 (citata nel 2025):
    • Anche se non del 2025, questa sentenza è stata menzionata nel contesto delle recenti decisioni giurisprudenziali sull’amianto. Ribadisce la valenza causale dell’esposizione all’amianto anche in assenza di specifiche prove dirette